Lettera a Tito 1:1-16

1  Paolo, schiavo di Dio e apostolo di Gesù Cristo secondo la fede degli eletti di Dio e l’accurata conoscenza della verità, verità che è conforme alla devozione a Dio  e si basa sulla speranza della vita eterna+ che Dio, il quale non può mentire,+ promise molto tempo fa  (al tempo stabilito, comunque, ha fatto conoscere la sua parola mediante la predicazione a me affidata+ per comando del nostro Salvatore, Dio),  a Tito,+ genuino figlio secondo la fede che condividiamo. Che tu possa avere immeritata bontà e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Salvatore!  Ti ho lasciato a Creta+ perché tu corregga ciò che ancora non va e faccia nomine di anziani di città in città, secondo le istruzioni che ti ho dato:  ciascuno di loro dev’essere libero da accuse,+ marito di una sola moglie e con figli credenti non accusati di essere dissoluti o ribelli.+  In quanto economo di Dio, infatti, il sorvegliante dev’essere libero da accuse, non ostinato,+ non irascibile,+ non ubriacone, non violento, non avido di guadagni disonesti,+  ma ospitale,+ amante della bontà, assennato,+ giusto, leale,+ capace di controllarsi,+  uno che nella sua arte di insegnare+ si attenga fermamente alla fedele parola, affinché possa sia incoraggiare mediante il sano* insegnamento+ sia riprendere+ quelli che contraddicono. 10  Ci sono infatti molti uomini ribelli, inutili chiacchieroni e ingannatori, specialmente quelli che si attengono alla circoncisione.+ 11  A questi bisogna chiudere la bocca, perché continuano a sovvertire intere famiglie, insegnando per amore di guadagni disonesti+ cose che non dovrebbero. 12  Uno di loro, un loro profeta, disse: “I cretesi sono sempre bugiardi, belve pericolose, oziosi ghiottoni”. 13  Questa testimonianza è vera. Per tale motivo continua a riprenderli+ con severità, perché siano sani nella fede 14  e non prestino attenzione a favole giudaiche+ e a comandamenti di uomini che deviano dalla verità. 15  Tutte le cose sono pure per i puri;+ ma per quelli che sono contaminati e senza fede nulla è puro, perché la loro mente e la loro coscienza sono contaminate.+ 16  Dichiarano pubblicamente di conoscere Dio, ma lo rinnegano con le azioni,+ perché sono detestabili, disubbidienti e indegni di qualsiasi opera buona.

Note in calce

O “benefico”.

Approfondimenti

Lettera a Tito A quanto pare intestazioni come questa non facevano parte del testo originale. Antichi manoscritti dimostrano che furono introdotte successivamente, senza dubbio per identificare con più facilità i vari libri. Ad esempio, il codice Sinaitico, famoso manoscritto del IV secolo, al termine della lettera contiene la dicitura “A Tito”. Anche in altri antichi manoscritti compare questa dicitura, ma con delle varianti.

tutti voi L’espressione fa capire che Paolo desiderava che la lettera venisse letta alla congregazione, anche se in realtà l’aveva scritta in primis a Tito. Questo avrebbe incoraggiato tutti a collaborare con Tito quando lui avrebbe impartito correzione (Tit 1:5, 10), nominato anziani (Tit 1:6-9), ripreso (Tit 1:13; 2:15), ricordato più volte qualcosa (Tit 3:1, 8) e aiutato materialmente chi era nel bisogno (Tit 3:13, 14).

Paolo O “da Paolo”. L’incipit, che si estende fino al v. 7, segue lo stile classico delle lettere antiche. In genere le lettere includevano il nome del mittente, il nome del destinatario (o dei destinatari) e i saluti (Ro 1:7). In questo caso l’incipit, in cui Paolo menziona la sua chiamata come apostolo e il suo messaggio, è insolitamente lungo (in greco un’unica lunga frase dal v. 1 al v. 7). Secondo alcuni, questo è dovuto al fatto che Paolo stava scrivendo a una congregazione che non aveva ancora visitato di persona, anche se a Roma molti cristiani già lo conoscevano. (Confronta approfondimenti ad At 15:23; 23:26.) Le prime volte in cui Paolo viene menzionato nelle Scritture è chiamato con il suo nome ebraico, Saulo, ma da At 13:9 in poi compare sempre il suo nome romano, Paolo (Pàulos è la forma greca del comune nome latino Paulus). In tutte le sue lettere, a eccezione di quella agli Ebrei, dove il suo nome non è presente, lui stesso si identifica come Paolo. Può darsi che ritenesse più opportuno usare il suo nome romano con i non ebrei, ai quali era stato incaricato di dichiarare la buona notizia come “apostolo delle nazioni” (Ro 11:13; At 9:15; Gal 2:7, 8; vedi approfondimenti ad At 7:58; 13:9).

per essere schiavi di O “per servire”. Il verbo greco reso “essere schiavo” si riferisce al servire altri, di solito un unico padrone. Qui è usato in senso figurato a proposito del servizio reso a Dio con devozione completa (At 4:29; Ro 6:22; 12:11). Paolo sapeva che “essere schiavi di un Dio vivente e vero” significa avere una vita felice, di gran lunga migliore rispetto a una vita trascorsa essendo schiavi di idoli inanimati, di altri uomini oppure del peccato (Ro 6:6; 1Co 7:23; vedi approfondimenti a Mt 6:24; Ro 1:1).

schiavo di Cristo Gesù Il termine greco reso “schiavo” (doùlos) di solito viene usato per riferirsi a individui che erano di proprietà di qualcun altro; spesso si trattava di schiavi che erano stati acquistati (Mt 8:9; 10:24, 25; 13:27). Questo termine viene usato anche in senso figurato per indicare devoti servitori di Dio e di Gesù Cristo (At 2:18; 4:29; Gal 1:10; Ri 19:10). Quando cedette la sua vita come riscatto, Gesù acquistò la vita di tutti i cristiani. Di conseguenza i cristiani non appartengono a sé stessi ma si considerano “schiavi di Cristo” (Ef 6:6; 1Co 6:19, 20; 7:23; Gal 3:13). Per dimostrare sottomissione a Cristo, loro Signore e Padrone, tutti gli scrittori delle lettere ispirate delle Scritture Greche Cristiane indirizzate alle congregazioni si definirono almeno una volta nei loro scritti ‘schiavi di Cristo’ (Ro 1:1; Gal 1:10; Gc 1:1; 2Pt 1:1; Gda 1; Ri 1:1).

Ecco la schiava di Geova! Con queste parole Maria fa eco a espressioni di altri servitori di Geova contenute nelle Scritture Ebraiche. Ad esempio, nella preghiera riportata in 1Sa 1:11 Anna disse: “O Geova degli eserciti, se presterai attenzione al dolore della tua schiava...” In 1Sa 1:11 la Settanta usa lo stesso termine greco reso “schiava” in Luca. (Vedi App. C3 introduzione; Lu 1:38.)

apostolo Il sostantivo greco qui usato (apòstolos) deriva da un verbo (apostèllo) che significa “inviare”, “mandare” (Mt 10:5; Lu 11:49; 14:32). Il significato fondamentale di apòstolos risulta chiaro dalle parole di Gesù riportate in Gv 13:16, dove è tradotto “chi è mandato”. Paolo fu chiamato a essere apostolo delle nazioni, o dei non giudei, e fu scelto per questo ruolo direttamente da Gesù Cristo risorto (At 9:1-22; 22:6-21; 26:12-23). Paolo difese il suo apostolato facendo riferimento al fatto che aveva visto il Signore Gesù Cristo risuscitato (1Co 9:1, 2) e aveva compiuto miracoli (2Co 12:12). Era anche stato impiegato per far scendere lo spirito santo su credenti battezzati, il che dimostrava ulteriormente che era un vero apostolo (At 19:5, 6). Pur definendosi spesso apostolo, non si include mai fra i Dodici (1Co 15:5, 8-10; Ro 11:13; Gal 2:6-9; 2Tm 1:1, 11).

accurata conoscenza Nelle Scritture Greche Cristiane ci sono due termini comunemente tradotti “conoscenza”: gnòsis ed epìgnosis. Epìgnosis, il termine usato qui, è una forma intensiva di gnòsis (epì letteralmente significa “sopra” ma in questo caso trasmette l’idea di “ulteriore”, “aggiuntivo”). In base al contesto può significare “conoscenza piena, autentica o esatta”. (Vedi approfondimento a Ro 10:2.) Qui Paolo lo usa per mostrare che il cristiano maturo deve raggiungere, non individualmente ma unitamente ai suoi compagni di fede, una conoscenza piena del Figlio di Dio, Cristo Gesù (1Co 1:24, 30; Ef 3:18; Col 2:2, 3; 2Pt 1:8; 2:20).

devozione a Dio Il termine greco eusèbeia trasmette l’idea di profonda riverenza e rispetto che un cristiano esprime a Dio servendolo lealmente e ubbidendogli in modo completo. Ha un significato ampio, infatti fa anche pensare a quell’amore leale o a quell’attaccamento verso Dio che spinge una persona a cercare di fare ciò che piace a lui. Un lessico riassume così il significato generale di questo termine: “vivere come Dio vuole che viviamo”. Paolo fa anche capire che la devozione a Dio non è una caratteristica innata. È per questo motivo che esorta Timoteo a darsi da fare per rafforzare questa qualità, esercitandosi, o allenandosi, come fa un atleta. Poco prima nella lettera, Paolo gli ha ricordato che Gesù Cristo ha lasciato l’esempio più incisivo di devozione a Dio. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:16.)

Paolo O “da Paolo”. L’incipit, che si estende fino al v. 4, segue lo stile classico delle lettere antiche. In genere le lettere includevano il nome del mittente, il nome del destinatario (o dei destinatari) e i saluti (Tit 1:4). In questa lettera, l’incipit è insolitamente lungo (in greco un’unica lunga frase che va dal v. 1 al v. 4). Qui Paolo non solo si identifica quale mittente, ma menziona anche il suo apostolato e la sua predicazione. Nello specifico si rivolge al suo compagno d’opera Tito, ma è possibile che sia ricorso a questa introduzione più lunga e formale perché la lettera era concepita per essere letta anche ad altri. (Vedi approfondimento a Tit 3:15; confronta approfondimento a Ro 1:1.)

schiavo di Dio Anche se all’epoca chi era schiavo occupava la posizione più bassa nella società, questa espressione non sminuisce il valore della persona che descrive. (Vedi approfondimento a 1Ts 1:9.) Paolo infatti, fedele cristiano, considerava un onore essere un umile schiavo dell’Iddio Altissimo e di suo Figlio. (Vedi approfondimento a Ro 1:1.) Anche Giacomo, fratellastro di Gesù, si definì “schiavo di Dio e del Signore Gesù Cristo” (Gc 1:1; confronta 1Pt 2:16; Ri 7:3). E Maria accolse l’incarico ricevuto dall’angelo di Geova con le parole: “Ecco la schiava di Geova!” (Vedi approfondimento a Lu 1:38.)

apostolo Vedi approfondimento a Ro 1:1.

accurata conoscenza della verità Nel suo ragionamento Paolo collega l’accurata conoscenza con la devozione a Dio e con la speranza (Tit 1:2; 2:11, 12; per una trattazione del termine greco qui reso “accurata conoscenza”, vedi approfondimento a Ef 4:13).

devozione a Dio Vedi approfondimento a 1Tm 4:7.

prima di tempi molto lontani Il proposito di Geova di scegliere un gruppo di discepoli perché regnassero con suo Figlio nel Regno celeste era strettamente legato alla profezia che si trova in Gen 3:15 (Gal 3:16, 29). Geova aveva reso noto questo proposito subito dopo il peccato di Adamo, millenni prima che Paolo scrivesse a Timoteo. Ecco perché Paolo poté dire che l’immeritata bontà era stata data “prima di tempi molto lontani”. Alcune traduzioni rendono questa espressione con “dall’eternità”, trasmettendo l’idea che le cose di cui parla Paolo fossero predeterminate da sempre. Tuttavia un lessico spiega che in questo contesto l’espressione greca non si riferisce all’eternità, ma a “un periodo di tempo molto indietro nel passato”. (Confronta Ro 16:25; confronta anche approfondimento a Ro 8:28.) Dio predice molto in anticipo come si svilupperanno gli eventi e attua senza alcun dubbio tutto quello che si propone (Isa 46:10; Ef 1:4).

il proposito eterno In questo contesto il termine “proposito” si riferisce a uno specifico obiettivo, o fine, che si può raggiungere in più di un modo. Indica la volontà di Geova di portare a compimento ciò che si era prefisso in origine per l’umanità e per la terra nonostante la ribellione in Eden (Gen 1:28). Subito dopo la ribellione, Geova stabilì questo proposito che riguarda il Cristo, Gesù nostro Signore. Predisse la comparsa di una “discendenza” che avrebbe cancellato i danni causati dai ribelli (Gen 3:15; Eb 2:14-17; 1Gv 3:8). Si tratta di un “proposito eterno” (lett. “proposito delle epoche”) per almeno due motivi: (1) Geova, definito “Re d’eternità” (lett. “Re delle epoche”) in 1Tm 1:17, ha deciso di far passare intere epoche prima della sua completa realizzazione; (2) gli effetti derivanti dal suo adempimento dureranno per tutta l’eternità. (Vedi approfondimento a Ro 8:28.)

speranza della vita eterna che Dio [...] promise molto tempo fa Qui Paolo parla di una promessa fatta da Dio “molto tempo fa”. (Confronta approfondimento a 2Tm 1:9.) È possibile che l’espressione “molto tempo fa” si riferisca a quando Geova per la prima volta stabilì che gli esseri umani vivessero per sempre sulla terra. Oppure potrebbe riferirsi a quando per la prima volta Geova rivelò questo suo proposito (Gen 1:27, 28; 2:17). Dopo la ribellione nel giardino di Eden, Dio pronunciò la sua condanna, ma non cambiò il suo proposito originale (Sl 37:29). In quell’occasione predisse che una speciale “discendenza” avrebbe ‘schiacciato’ Satana; in seguito nella Bibbia mostrò che questa “discendenza” avrebbe incluso degli esseri umani che avrebbero vissuto in cielo per sempre (Gen 3:15; confronta Da 7:13, 14, 27; Lu 22:28-30). Paolo, insieme agli altri cristiani unti, nutriva proprio questa “speranza della vita eterna” in cielo. (Vedi approfondimento a Ef 3:11.)

Dio, il quale non può mentire Mentire violerebbe la natura stessa di Geova, in quanto “Dio di verità” (Sl 31:5). Tutto quello che lui fa infatti viene realizzato tramite il suo spirito santo, che Gesù definì “lo spirito della verità” (Gv 15:26; 16:13); Geova inoltre è totalmente diverso dagli esseri umani imperfetti, perché “non è un semplice uomo che dice menzogne” (Nu 23:19); per di più, Geova si distingue nettamente da Satana, il quale “è bugiardo e padre della menzogna” (Gv 8:44). Quello che Paolo vuole dire è questo: dal momento che è impossibile che Dio dica menzogne, le sue promesse sono assolutamente degne di fiducia (Eb 6:18).

Dio, nostro Salvatore Nella prima lettera a Timoteo e in quella a Tito, Paolo usa il termine “Salvatore” sei volte riferendosi a Geova Dio (qui e in 1Tm 2:3; 4:10; Tit 1:3; 2:10; 3:4); nel resto delle Scritture Greche Cristiane, invece, compare solo due volte riferito a Geova (Lu 1:47; Gda 25). Nelle Scritture Ebraiche, si parla spesso di Geova come del Salvatore del suo popolo, Israele (Sl 106:8, 10, 21; Isa 43:3, 11; 45:15, 21; Ger 14:8). Anche Gesù, però, può a buon diritto essere definito “Salvatore”, perché è tramite lui che Geova salva gli esseri umani dal peccato e dalla morte (At 5:31; 2Tm 1:10). Inoltre è definito “colui che [...] conduce alla salvezza” (Eb 2:10). Il nome Gesù, dato sotto guida angelica al Figlio di Dio, significa “Geova è salvezza”; infatti l’angelo spiegò: “Salverà il suo popolo dai loro peccati” (Mt 1:21 e approfondimento). Questo nome, quindi, sottolinea il fatto che Geova è la Fonte della salvezza mediante Gesù. Ecco perché il termine “Salvatore” può essere giustamente utilizzato per riferirsi sia al Padre che al Figlio (Tit 2:11-13; 3:4-6). Il termine ebraico e quello greco (nella Settanta) per “salvatore” vengono usati per indicare anche esseri umani scelti come “salvatori che [...] liberavano” il popolo di Dio dai nemici (Ne 9:27; Gdc 3:9, 15).

nostro Salvatore, Dio Vedi approfondimento a 1Tm 1:1.

nemmeno Tito [...] fu obbligato a farsi circoncidere Quando ad Antiochia sorse la questione della circoncisione (ca. 49), Tito accompagnò Paolo e Barnaba a Gerusalemme (At 15:1, 2; Gal 2:1). Tito era “greco”, cioè un non ebreo incirconciso. (Vedi l’approfondimento greco in questo versetto.) Il verbo “obbligare” sembra riferirsi a “quelli che godevano di grande stima” di cui si parla nel v. 2, i quali evidentemente non fecero alcuna pressione perché Tito si circoncidesse. Questo lascerebbe pensare che invece alcuni giudaizzanti (cristiani che promuovevano l’osservanza delle dottrine e delle tradizioni giudaiche) avessero insistito affinché lo facesse. All’adunanza che si tenne a Gerusalemme, però, gli apostoli e gli anziani stabilirono che i cristiani non ebrei non erano tenuti a circoncidersi (At 15:23-29). Paolo qui fa riferimento al caso di Tito per avvalorare la sua argomentazione: chi si converte al cristianesimo non è obbligato a osservare la Legge mosaica. Tito svolse il suo ministero principalmente fra persone incirconcise delle nazioni, quindi il fatto che fosse incirconciso non creò problemi (2Co 8:6; 2Tm 4:10; Tit 1:4, 5). Il suo caso era diverso da quello di Timoteo, che invece fu circonciso da Paolo. (Vedi approfondimento ad At 16:3.)

non mi davo pace per non avervi trovato mio fratello Tito Paolo aveva scritto 1 Corinti mentre si trovava a Efeso. Quella lettera conteneva consigli energici. In seguito Paolo aveva inviato Tito a Corinto perché desse una mano in relazione alla colletta per i cristiani bisognosi della Giudea (2Co 8:1-6). Paolo aveva poi sperato di incontrare Tito a Troas, ma la cosa non si era concretizzata. Ecco perché in questo versetto scrive: “Non mi davo pace”. Forse era dispiaciuto perché non era riuscito ad avere da Tito notizie sulla reazione dei corinti alla sua energica lettera. Paolo volle dire apertamente ai cristiani di Corinto come si sentiva, dimostrando che si interessava profondamente di loro. In seguito partì per la Macedonia, dove finalmente incontrò Tito, che gli diede buone notizie. Con grande sollievo e gioia di Paolo, la congregazione aveva reagito in modo positivo ai suoi consigli (2Co 7:5-7; vedi approfondimento a 2Co 7:5).

Dalmazia La Dalmazia si trova nella penisola balcanica, a E dell’Adriatico. Il nome era usato per riferirsi alla parte meridionale della provincia romana dell’Illirico. Comunque, quando Paolo scrisse questa lettera, la Dalmazia era una provincia a sé. (Vedi App. B13.) È possibile che Paolo avesse attraversato la Dalmazia, dal momento che aveva predicato “fino all’Illirico” (Ro 15:19 e approfondimento). Aveva chiesto a Tito che era a Creta di raggiungerlo a Nicopoli, forse la Nicopoli che si trovava sulla costa nord-occidentale di quella che oggi è la Grecia (Tit 3:12). Perciò è plausibile che Tito sia rimasto lì a Nicopoli con Paolo, e poi sia andato in Dalmazia per un nuovo incarico di servizio. Lì probabilmente servì come missionario e aiutò a organizzare le congregazioni, un po’ come aveva fatto a Creta (Tit 1:5).

genuino figlio Definendo Timoteo in questo modo, Paolo esprime il tenero affetto paterno che lo lega a lui. Le Scritture non dicono se sia stato lui a far conoscere la buona notizia a Timoteo e alla sua famiglia. Quello che dicono, però, è che, quando era relativamente giovane, Timoteo iniziò ad accompagnarlo nei suoi viaggi (At 16:1-4). Perciò, quando Paolo scrisse questa lettera, lo considerava suo figlio nella fede, cioè un figlio spirituale. (Confronta Tit 1:4.) Il loro legame speciale si era consolidato nel corso del tempo, da 10 anni o più (1Co 4:17; Flp 2:20-22).

Possiate avere immeritata bontà e pace Questo è il saluto che Paolo rivolge in 11 delle sue lettere (1Co 1:3; 2Co 1:2; Gal 1:3; Ef 1:2; Flp 1:2; Col 1:2; 1Ts 1:1; 2Ts 1:2; Tit 1:4; Flm 3). Usa un saluto simile nelle sue lettere a Timoteo, ma aggiungendo la qualità della “misericordia” (1Tm 1:2; 2Tm 1:2). Gli studiosi fanno notare che, invece di usare chàirein, la comune formula resa “Saluti!”, Paolo spesso usa chàris, un termine greco dal suono simile, con cui esprime il desiderio che le congregazioni possano godere di “immeritata bontà” in abbondanza. (Vedi approfondimento ad At 15:23.) Il fatto che venga usato il termine “pace” rispecchia la comune formula di saluto ebraica shalòhm. (Vedi approfondimento a Mr 5:34.) A quanto pare, usando l’espressione “immeritata bontà e pace”, Paolo sottolinea il nuovo legame che i cristiani hanno con Geova Dio grazie al riscatto. Nel descrivere da chi provengono immeritata bontà e pace, Paolo menziona Dio nostro Padre separatamente dal Signore Gesù Cristo.

Dio, nostro Salvatore Nella prima lettera a Timoteo e in quella a Tito, Paolo usa il termine “Salvatore” sei volte riferendosi a Geova Dio (qui e in 1Tm 2:3; 4:10; Tit 1:3; 2:10; 3:4); nel resto delle Scritture Greche Cristiane, invece, compare solo due volte riferito a Geova (Lu 1:47; Gda 25). Nelle Scritture Ebraiche, si parla spesso di Geova come del Salvatore del suo popolo, Israele (Sl 106:8, 10, 21; Isa 43:3, 11; 45:15, 21; Ger 14:8). Anche Gesù, però, può a buon diritto essere definito “Salvatore”, perché è tramite lui che Geova salva gli esseri umani dal peccato e dalla morte (At 5:31; 2Tm 1:10). Inoltre è definito “colui che [...] conduce alla salvezza” (Eb 2:10). Il nome Gesù, dato sotto guida angelica al Figlio di Dio, significa “Geova è salvezza”; infatti l’angelo spiegò: “Salverà il suo popolo dai loro peccati” (Mt 1:21 e approfondimento). Questo nome, quindi, sottolinea il fatto che Geova è la Fonte della salvezza mediante Gesù. Ecco perché il termine “Salvatore” può essere giustamente utilizzato per riferirsi sia al Padre che al Figlio (Tit 2:11-13; 3:4-6). Il termine ebraico e quello greco (nella Settanta) per “salvatore” vengono usati per indicare anche esseri umani scelti come “salvatori che [...] liberavano” il popolo di Dio dai nemici (Ne 9:27; Gdc 3:9, 15).

Tito Tito era un cristiano greco che collaborò a stretto contatto con l’apostolo Paolo. Intorno al 49, Paolo lo portò con sé a Gerusalemme, dove venne presa la decisione in merito alla questione della circoncisione (At 15:1, 2; Gal 2:3 e approfondimento). Qualche anno dopo, verso il 55, Paolo lo mandò a Corinto perché desse una mano riguardo alla colletta in soccorso dei cristiani bisognosi della Giudea e forse anche per accertarsi di come i cristiani locali avessero accolto la sua prima lettera. Rassicurato dalle buone notizie riportategli da Tito, Paolo scrisse loro la sua seconda lettera, lettera che a quanto pare fu consegnata proprio da Tito (2Co 2:13 e approfondimento; 2Co 7:6, 7, 13-16; 8:1-6, 16, 17, 23; 12:17, 18). Probabilmente tra il 61 e il 64, Paolo lo lasciò a Creta perché, come si legge nel v. 5, ‘correggesse ciò che ancora non andava e facesse nomine di anziani’. In seguito gli chiese di raggiungerlo a Nicopoli (Tit 3:12). Durante la seconda detenzione dell’apostolo a Roma (nel 65 circa), Tito andò in Dalmazia. (Vedi approfondimento a 2Tm 4:10.) È probabile che lo fece con l’approvazione di Paolo; anzi, forse fu proprio Paolo a inviarlo lì. Non c’è dubbio, Tito fu un cristiano fedele, un punto di riferimento per le congregazioni che servì e un sostegno per lo stesso Paolo.

genuino figlio Nelle sue lettere Paolo utilizza questa espressione affettuosa solo per Tito e Timoteo (1Tm 1:2 e approfondimento). Forse fu proprio Paolo a far conoscere a Tito la buona notizia. Quello che è certo è che Paolo lo considerava un figlio spirituale. Il loro legame speciale si consolidò man mano che svolgevano insieme l’opera in favore delle congregazioni (2Co 8:23). All’epoca della stesura di questa lettera, i due si conoscevano ormai da almeno 12 anni.

Che tu possa avere immeritata bontà e pace Vedi approfondimento a Ro 1:7.

immeritata bontà Vedi Glossario.

Cristo Gesù nostro Salvatore Nel versetto precedente è Dio a essere chiamato “nostro Salvatore”. Pertanto alcuni giungono alla conclusione che Gesù e Dio sono la stessa persona. È degno di nota però che questo versetto menzioni separatamente “Dio Padre” e “Cristo Gesù nostro Salvatore”. Gesù può a buon diritto essere definito “nostro Salvatore” perché è tramite lui che Dio salva gli esseri umani dal peccato e dalla morte. In Eb 2:10 Paolo lo definisce “colui che [...] conduce alla salvezza”. E lo scrittore biblico Giuda chiama Geova il “solo Dio nostro Salvatore per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”, il che dimostra che Dio e Cristo cooperano strettamente alla nostra salvezza (Gda 25). Da tutto ciò si evince che le parole di Paolo non sostengono affatto l’idea che “Cristo Gesù” e “Dio Padre” siano la stessa persona. (Vedi approfondimento a 1Tm 1:1.)

nominarono Qui le Scritture mostrano che gli anziani venivano nominati da sorveglianti viaggianti, in questo caso Paolo e Barnaba. I due fecero questo pregando e digiunando, il che dimostra che non prendevano alla leggera l’incarico di fare queste nomine. Si dice che anche Tito ebbe una parte nel fare nomine di “anziani” nelle congregazioni, ed evidentemente si può dire lo stesso di Timoteo (Tit 1:5; 1Tm 5:22). Il termine greco qui reso “nominarono” (cheirotonèo) significa letteralmente “stendere [o “alzare”] la mano”. Basandosi su questo significato, alcuni hanno dedotto che gli anziani venissero eletti dalla congregazione per alzata di mano. Comunque questo termine greco è anche usato con un significato più generico, senza alcun riferimento al modo in cui venivano fatte le nomine. Giuseppe Flavio, storico ebreo del I secolo, conferma questo uso del termine nelle sue Antichità Giudaiche (VI, 54 [iv, 2]; VI, 312 [xiii, 9]) ricorrendo allo stesso verbo greco quando descrive l’occasione in cui Dio nominò Saul re. In quella circostanza la congregazione non fu chiamata a votare per alzata di mano. Le Scritture dicono invece che il profeta Samuele versò olio sulla testa di Saul e disse: “Geova ti ha unto come capo”. Questo conferma che Saul fu nominato da Geova Dio (1Sa 10:1). Inoltre, come mostra la struttura grammaticale dell’originale greco di At 14:23, furono gli apostoli Paolo e Barnaba a “stendere la mano”, cioè a fare le nomine, e non l’assemblea o congregazione. Quando in altre circostanze uomini qualificati furono nominati perché ricoprissero incarichi di responsabilità nella congregazione del I secolo, gli apostoli e altri uomini autorizzati posero letteralmente le mani su di loro, gesto compiuto in segno di conferma, approvazione o nomina. (Confronta approfondimento ad At 6:6.)

Creta Creta, all’incirca lunga 250 km e larga 56 nel suo punto più ampio, è una delle più grandi isole del Mediterraneo; si trova nella parte meridionale dell’Egeo, a circa 100 km a SE della Grecia continentale. L’apostolo Paolo costeggiò l’isola nel corso del suo viaggio verso Roma in occasione del suo primo processo (At 27:7-9, 12, 13, 21). Sembra che, dopo la sua prima detenzione a Roma, sia tornato a Creta, ma questa volta per dedicarsi al ministero. Quando poi partì, vi lasciò Tito perché continuasse l’opera. (Vedi App. B13 e Galleria multimediale, “Atti degli Apostoli | Viaggio di Paolo verso Roma e prima detenzione nella città”; “Viaggi di Paolo successivi al 61 E.V. ca.”.)

perché tu corregga ciò che ancora non va Quando lasciò Creta, Paolo affidò a Tito un incarico impegnativo: correggere le cose che rimanevano da sistemare nelle congregazioni dell’isola. Come si comprende dal contenuto di questa lettera, c’era ancora molto da fare. Paolo dà infatti istruzioni su come gestire nel modo più appropriato situazioni relative a chi si rifiutava di collaborare, a chi minava l’amorevole guida di Tito o a chi addirittura promuoveva sette (Tit 1:9; 2:15; 3:10, 11).

faccia nomine di anziani Queste parole indicano che Paolo aveva affidato a Tito il seguente incarico: in ognuna delle varie congregazioni doveva conferire ad alcuni uomini l’autorità di guidarle (Eb 13:7, 17). Per poter essere nominati anziani, quei cristiani dovevano soddisfare i requisiti elencati da Paolo, sotto ispirazione, nei versetti che seguono (Tit 1:6-9; vedi anche 1Tm 3:1-7). Tito — al pari di altri sorveglianti viaggianti, come Paolo, Barnaba e forse anche Timoteo — era autorizzato a nominare anziani nelle varie congregazioni. (Vedi approfondimento ad At 14:23.)

di città in città Nei tempi antichi Creta era famosa per le sue numerose città. Infatti, già molti secoli prima dell’epoca di Paolo, Omero l’aveva poeticamente descritta così: “Creta dalle cento città” (Iliade, II, 649, trad. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1990). In realtà, non si sa con esattezza quante fossero nel I secolo le città dell’isola. Con l’espressione “di città in città”, Paolo intende dire che Tito dovrà viaggiare per tutta l’isola per nominare anziani che nelle congregazioni insegnino e si prendano cura dei cristiani locali (Tit 1:6-9).

irreprensibile Il termine greco usato qui potrebbe anche essere reso “ineccepibile” o “inattaccabile”. Questo non vuol dire che un sorvegliante debba essere perfetto, ma significa che nessuno dovrebbe essere in grado di muovere un’accusa valida contro di lui. La sua condotta, il suo modo di comportarsi con gli altri e il suo stile di vita dovrebbero essere inattaccabili. Dev’essere un uomo che ha norme morali davvero elevate (2Co 6:3, 4; Tit 1:6, 7). Alcuni studiosi sostengono che tutti i requisiti che gli uomini cristiani devono soddisfare per essere nominati sorveglianti potrebbero essere racchiusi in quest’unica parola, “irreprensibile”.

marito di una sola moglie Gesù aveva già ripristinato la norma originale stabilita da Geova in relazione alla monogamia (Mt 19:4-6). Pertanto un sorvegliante cristiano non poteva essere poligamo, anche se la poligamia era concessa dalla Legge mosaica ed era comune tra chi non era cristiano. Altrettanto comune, anche tra gli ebrei, era divorziare e risposarsi. Gesù, però, aveva insegnato che, senza una base scritturale, il cristiano non poteva divorziare da sua moglie e sposarne un’altra (Mt 5:32; 19:9). Anche se queste norme si applicavano a tutti i cristiani, i sorveglianti e i servitori di ministero dovevano dare l’esempio (1Tm 3:12). Inoltre un sorvegliante sposato doveva essere fedele alla moglie e non doveva commettere immoralità sessuale (Eb 13:4).

che abbia figli sottomessi e rispettosi Alcuni ritengono che il termine “sottomessi”, che in greco alla lettera è “in sottomissione”, si riferisca al padre, ma sembra più logico riferirlo ai figli. I figli cristiani si dimostrano “sottomessi e rispettosi” essendo ubbidienti ed educati. Si comportano in modo appropriato alla loro età e alle circostanze. La Bibbia indica che è normale che i bambini ridano e giochino (Lu 7:32; confronta Ec 3:4; Isa 11:8). In 1Co 13:11 Paolo riconobbe che quando era bambino parlava, pensava e ragionava “da bambino”. Quindi, qui in 1Tm 3:4, non intende dire che ci si dovrebbe aspettare che i bambini ragionino o si comportino come se fossero adulti.

non irritate Il verbo greco per “irritare” potrebbe essere tradotto letteralmente “provocare ira”, “far arrabbiare”. Non si riferisce necessariamente ai casi in cui a motivo dell’imperfezione un genitore può involontariamente irritare il figlio. Un’opera di consultazione dice che questa irritazione può essere causata nei figli dal fatto che vengono trattati “in maniera sbrigativa, rude e incoerente, così che [...] si sentono respinti e sono indotti a ribellarsi, a rifiutarsi di ubbidire e a provare rancore”. (Confronta Col 3:21.)

nella disciplina e nell’istruzione di Geova In materia di educazione dei figli, Geova Dio è l’autorità suprema. Quando Mosè disse agli israeliti che dovevano amare Geova con tutto il cuore, l’anima e la forza, comandò loro anche di inculcare le Sue parole nei figli (De 6:5-8). Geova viene più volte descritto come colui che disciplina i suoi servitori (De 11:2; Pr 3:11, 12; Eb 12:6; per maggiori informazioni sull’uso del nome divino qui, vedi App. C3 introduzione; Ef 6:4).

disciplina Il termine greco per “disciplina” (paidèia) è affine alla parola per “figlio” (pàis). Quindi il concetto biblico di disciplina include tutto ciò che comporta crescere un figlio: istruire, educare, correggere e, a volte, castigare in maniera ferma ma amorevole. Un lessico definisce questo termine “l’atto di educare, formare, istruire e provvedere linee guida per vivere in modo responsabile”.

istruzione O “guida”, “ammonimenti”. La parola greca usata qui (nouthesìa) è composta dal sostantivo per “mente” (noùs) e dal verbo reso “mettere” (tìthemi). In questo contesto indica che i padri cristiani devono aiutare i propri figli a capire il modo di pensare di Geova; devono per così dire mettere in loro la mente di Geova Dio.

non esasperate Il verbo greco per “esasperare” può anche essere reso “irritare”, “provocare” o “tormentare”. Paolo non si riferisce agli effetti della disciplina impartita da un genitore amorevole. (Confronta Pr 13:24.) Si riferisce piuttosto ai danni subiti dai figli quando vengono trattati dai genitori con insensibilità o eccessiva severità. Questo modo di fare da parte dei genitori non sarebbe in armonia con quanto le Scritture dicono sul rapporto equilibrato che Geova ha con i suoi servitori (Sl 103:13; Gc 5:11) o sui modi rassicuranti che ha usato con suo Figlio (Mt 3:17; 17:5).

si scoraggino Il verbo usato da Paolo ricorre solo qui nelle Scritture Greche Cristiane. Fa pensare a un tipo di scoraggiamento che può diventare così profondo da essere pericoloso per il benessere fisico ed emotivo di un figlio. Come suggerisce il contesto, questo scoraggiamento può essere la conseguenza dei modi irritanti usati dai genitori. A proposito del verbo originale, alcune opere di consultazione fanno notare che il trattamento esasperante di cui parla Paolo può portare un figlio a convincersi che è impossibile rendere felice il genitore. Questa convinzione, a sua volta, può indurlo a perdersi d’animo o addirittura farlo sprofondare nella tristezza o nell’ansia. (Vedi l’approfondimento non esasperate in questo versetto.)

una vita dissoluta O “una vita di sprechi”, “una vita sconsiderata (sfrenata)”. Un termine greco affine è usato con un significato simile in Ef 5:18; Tit 1:6; 1Pt 4:4. La parola originale potrebbe anche indicare lo stile di vita di uno spendaccione; per questo motivo la parabola è chiamata “parabola del figlio prodigo”, dato che il termine “prodigo” può essere usato per definire chi spende in modo eccessivo.

libero da accuse Espressioni che esprimono questo concetto si trovano anche nella prima lettera di Paolo a Timoteo (1Tm 3:10; vedi approfondimento a 1Tm 3:2).

marito di una sola moglie Vedi approfondimento a 1Tm 3:2.

con figli credenti Per poter servire in qualità di anziano, un capofamiglia cristiano deve dirigere la famiglia nel modo giusto. Paolo disse qualcosa di simile in 1Tm 3:4. (Vedi approfondimento.) Qui però specifica che i figli di un anziano devono essere “credenti”. Ovviamente non intende dire che un padre cristiano debba obbligare i suoi figli a diventare credenti; questo sarebbe in contrasto con i princìpi biblici relativi alla libertà di scelta (De 30:15, 16, 19). Per essere idoneo a servire in qualità di anziano, un padre cristiano deve piuttosto dimostrare di aver fatto tutto quello che è ragionevolmente possibile per aiutare i suoi figli a diventare credenti. Seguirà con attenzione la guida che Geova fornisce in relazione a come crescere i figli (De 6:6, 7; vedi approfondimenti a Ef 6:4; Col 3:21).

dissoluti Il termine greco originale, che qui potrebbe anche essere tradotto “sfrenati”, “depravati”, spesso si riferisce allo stile di vita di una persona sregolata, spendacciona e immorale (1Pt 4:4). Un termine affine compare nella parabola del figlio prodigo, in cui Gesù parlò di un figlio ribelle che andò via di casa per fare “una vita dissoluta”, dilapidando tra le altre cose la sua eredità con le prostitute (Lu 15:13 e approfondimento, 30).

ribelli Secondo un lessico, il termine greco usato da Paolo descrive qualcuno che è “indisciplinato, disubbidiente, insubordinato e rifiuta di sottomettersi all’autorità”. Se lascia che i propri figli siano ribelli e sfrenati, un padre cristiano non sarebbe idoneo a servire in qualità di sorvegliante.

economo O “amministratore della casa”. Il greco oikonòmos indica un servitore preposto alle attività di altri servitori. Nell’antichità questa posizione era spesso ricoperta da uno schiavo fidato che gestiva gli affari del padrone. Era quindi una posizione di grande fiducia. Ne è un esempio il “servitore che amministrava tutto quello che [Abraamo] aveva” (Gen 24:2). Un altro esempio è Giuseppe (Gen 39:4). In questa parabola di Gesù il termine “economo” è usato al singolare, ma questo non significa necessariamente che l’economo in questione sia una sola persona o una persona in particolare. Le Scritture contengono diversi esempi di termini al singolare usati in senso collettivo, come nel caso in cui Geova si rivolse alla nazione d’Israele dicendo: “Voi siete i miei testimoni [plurale], [...] il mio servitore [singolare], che io ho scelto” (Isa 43:10). In modo simile, questa parabola fa riferimento a un economo composito. Nel passo parallelo di Mt 24:45, questo economo è chiamato “schiavo fedele e saggio”.

amministratori O “economi”. Il greco oikonòmos indicava un servitore che aveva ricevuto dal padrone l’incarico di gestire la sua casa, inclusi i suoi affari, le sue proprietà e il resto della servitù. Questo servitore ricopriva una posizione di grande fiducia; ci si aspettava quindi che si dimostrasse fedele (1Co 4:2). Paolo riconosceva che il suo compito di amministratore comportava custodire i “sacri segreti di Dio” e parlarne ad altri con fedeltà, come gli era stato comandato dal suo Signore e Padrone, Gesù Cristo (1Co 9:16; vedi approfondimento a Lu 12:42).

irreprensibile Il termine greco usato qui potrebbe anche essere reso “ineccepibile” o “inattaccabile”. Questo non vuol dire che un sorvegliante debba essere perfetto, ma significa che nessuno dovrebbe essere in grado di muovere un’accusa valida contro di lui. La sua condotta, il suo modo di comportarsi con gli altri e il suo stile di vita dovrebbero essere inattaccabili. Dev’essere un uomo che ha norme morali davvero elevate (2Co 6:3, 4; Tit 1:6, 7). Alcuni studiosi sostengono che tutti i requisiti che gli uomini cristiani devono soddisfare per essere nominati sorveglianti potrebbero essere racchiusi in quest’unica parola, “irreprensibile”.

ragionevole Il significato del termine greco usato qui da Paolo è ampio e può anche trasmettere l’idea di una persona gentile, cortese o tollerante. (Vedi approfondimento a Flp 4:5.) Letteralmente significa “arrendevole”. Usando questa parola, però, Paolo non sta dicendo che un sorvegliante dovrebbe essere arrendevole o tollerante davanti a qualcosa di sbagliato né che dovrebbe scendere a compromessi riguardo alle norme divine. Piuttosto intende dire che, in questioni di gusto personale, un sorvegliante dovrebbe essere disposto a cedere e ad accettare il punto di vista degli altri. Non è rigido e non insiste sui suoi diritti o sul fare le cose come le ha sempre fatte. Al contrario, quando si tratta di opinioni personali, rispetta le preferenze altrui ed è pronto ad adattarsi alle circostanze che cambiano. Sostiene con fermezza le leggi e i princìpi biblici, ma cerca di mostrare gentilezza ed equilibrio nel metterli in pratica. La ragionevolezza è una sfaccettatura della sapienza divina e una caratteristica peculiare della personalità di Gesù Cristo (Gc 3:17; vedi approfondimento a 2Co 10:1). Inoltre è una qualità che dovrebbe contraddistinguere tutti i cristiani (Tit 3:1, 2).

non violento Il termine greco qui reso “violento” alla lettera può riferirsi a qualcuno che colpisce fisicamente un altro. Comunque può avere un significato più ampio, e riferirsi anche a un bullo, a un prepotente. Una persona può bullizzare qualcuno usando parole taglienti o offensive che possono fare male come un colpo fisico, letterale. (Vedi approfondimento a Col 3:8.) Paolo spiegò che i cristiani dovrebbero essere gentili e miti, anche quando affrontano situazioni difficili. Questa norma ispirata è valida soprattutto per gli anziani. (Confronta 2Tm 2:24, 25.)

avidi di guadagni disonesti Stando a un lessico, il termine greco reso con questa espressione (che si trova anche in Tit 1:7) fondamentalmente descrive qualcuno “ignobilmente avido di profitti o di vantaggi economici”. (Confronta 1Tm 3:3; 1Pt 5:2.) Chi ama il denaro mette in pericolo l’amicizia che ha con Geova, e gli avidi non erediteranno il Regno di Dio (1Co 6:9, 10; 1Tm 6:9, 10). È chiaro che un avido non è idoneo a diventare sorvegliante o servitore di ministero, infatti è probabile che sfrutterebbe gli altri compagni di fede. Per esempio, a chi è nominato potrebbe essere affidata la gestione dei fondi della congregazione e la loro distribuzione a chi è nel bisogno. Ma se questa persona fosse “[avida] di guadagni disonesti” potrebbe essere tentata di rubare parte di questo denaro, danneggiando la congregazione e soprattutto offendendo Geova (Gv 12:4-6).

non attaccato al denaro Chi è concentrato sull’accumulare beni materiali non può allo stesso tempo prestare la dovuta attenzione al pascere “il gregge di Dio” (1Pt 5:2). Chi si dedica alle cose materiali di questo mondo non può aiutare in modo concreto chi serve Dio a ottenere la vita eterna “nel sistema di cose futuro” (Lu 18:30). E non può essere incisivo quando insegna agli altri a “riporre la loro speranza [...] in Dio” mentre lui stesso confida “nelle ricchezze incerte” (1Tm 6:17). Perciò chi è “attaccato al denaro” non sarebbe idoneo a servire come sorvegliante. Quanto richiesto ai sorveglianti su questo argomento è in armonia con quello che la Bibbia consiglia a tutti i cristiani (Mt 6:24; 1Tm 6:10; Eb 13:5).

In quanto economo di Dio Qui Paolo paragona chi è “sorvegliante” nella congregazione a un “economo”. Il termine greco tradotto “economo” (o “amministratore della casa”) si riferisce a qualcuno che gestisce, o controlla, le proprietà del padrone e si occupa di tutti coloro che appartengono alla casa. Nella sua prima lettera a Timoteo, altra lettera in cui sono elencati i requisiti per i sorveglianti, Paolo definisce la congregazione cristiana “casa di Dio” (1Tm 3:15). Dicendo a Tito che un sorvegliante è un “economo di Dio”, Paolo mette quindi in evidenza il ruolo che gli anziani hanno nel servire quelli che appartengono a questa casa. Tale incarico prevede che siano in prima linea nell’insegnare all’interno ma anche all’esterno della congregazione. Questi economi devono rendere conto al loro padrone, Dio, del modo in cui assolvono le proprie responsabilità. (Vedi approfondimenti a Lu 12:42; 1Co 4:1.)

dev’essere libero da accuse Vedi approfondimento a 1Tm 3:2.

ostinato O “arrogante”. Il termine originale potrebbe alla lettera essere reso “compiaciuto di sé”. Una persona ostinata fa quello che vuole; è testarda e rimane ancorata alle sue opinioni, rifiutando di prendere in considerazione quelle degli altri. È probabile che questo atteggiamento la renderebbe insensibile ai sentimenti degli altri e non la porterebbe a collaborare con loro. Se un fratello con queste caratteristiche fosse nominato anziano, causerebbe tanti problemi alla congregazione. (Confronta approfondimento a 1Tm 3:3.)

irascibile O “incline ad arrabbiarsi”, “irritabile”. Una persona irascibile si altera facilmente. Non riesce a controllare il suo temperamento e, dato che di solito reagisce con rabbia, crea un’atmosfera tesa, che causa molta sofferenza (Pr 15:18; 22:24; 25:28; 29:22). Un fratello che è idoneo a servire come anziano, invece, è “ragionevole, non litigioso” (1Tm 3:3). Imita Geova, che è “paziente”, o “lento all’ira” (Eso 34:6; nt.; Sl 86:15; nt.).

non violento Vedi approfondimento a 1Tm 3:3.

avido di guadagni disonesti Vedi l’approfondimento a 1Tm 3:8, dove Paolo usa lo stesso termine greco; vedi anche approfondimento a 1Tm 3:3.

ospitale Tutti i cristiani devono essere ospitali (Eb 13:1, 2; 1Pt 4:9), ma chi è sorvegliante dovrebbe dare l’esempio al riguardo (Tit 1:8). Il termine greco reso “ospitalità” letteralmente significa “amore per gli estranei”. (Vedi approfondimento a Ro 12:13.) A proposito dell’aggettivo affine qui reso “ospitale”, alcuni lessici spiegano che si riferisce all’avere “riguardo per l’estraneo o il visitatore” e all’essere “generoso verso gli ospiti”. Parlando dell’atteggiamento che l’uomo ospitale manifesta, un’opera di consultazione dice che “le porte della sua casa e del suo cuore devono essere aperte agli estranei”. Quindi si dovrebbe mostrare ospitalità non solo alla propria stretta cerchia di amici, ma anche ad altri. Per esempio, i cristiani sono incoraggiati a mostrarla ai poveri o ai rappresentanti viaggianti delle congregazioni (Gc 2:14-16; 3Gv 5-8).

bontà Qui con “bontà” si intende eccellenza morale, virtù. Un lessico definisce il termine greco originale come “qualità morale positiva caratterizzata in particolar modo da interesse per il benessere altrui”. Quindi per un cristiano la bontà non dev’essere solo una qualità interiore: deve tramutarsi in azioni. Anche se imperfetto, il cristiano può coltivare la bontà ubbidendo ai comandi di Geova e imitando la sua bontà e generosità (At 9:36, 39; 16:14, 15; Ro 7:18; Ef 5:1). In Geova questa qualità trova la sua massima espressione (Sl 25:8; Zac 9:17; Mr 10:18 e approfondimento). È un Dio veramente generoso e premuroso (At 14:17).

assennato O “di mente sana”, “di buon senso”. Secondo un lessico, i termini greci solitamente resi “assennato” e “assennatezza” si riferiscono all’essere “prudenti, riflessivi ed equilibrati”. Una persona assennata mostra autocontrollo ed evita di emettere giudizi affrettati.

gli uomini preghino Paolo si sta riferendo alle preghiere pronunciate in pubblico nella congregazione, privilegio riservato solo agli uomini (1Co 14:34; 1Tm 2:11, 12). L’espressione alzando mani descrive una posizione che nei tempi biblici era comune assumere quando si pregava. Ad esempio, non era insolito che un uomo che pronunciava una preghiera pubblica stendesse le mani verso il cielo per chiedere il favore di Dio. (Confronta 1Re 8:22, 23.) Comunque i fedeli servitori di Dio potevano pregare anche in altre posizioni, e la Bibbia non considera una postura migliore di un’altra (1Cr 17:16; Mr 11:25; At 21:5). La cosa più importante quando si pregava era l’atteggiamento. In questo versetto Paolo sottolinea infatti che coloro che pregano devono essere leali. Il termine greco reso “leale” potrebbe anche essere tradotto “santo”, “puro” o “consacrato”. Pertanto, ciò che conta per Geova è la purezza morale dell’uomo che prega e il suo affidarsi a Lui con devozione e lealtà. (Confronta approfondimento a Tit 1:8.)

autocontrollo O “padronanza di sé”. Il termine greco reso “autocontrollo” compare quattro volte nelle Scritture Greche Cristiane (At 24:25; 2Pt 1:6). Questa qualità è stata definita “controllo esercitato sugli impulsi, sulle emozioni e sui desideri”. Il verbo originale affine compare in 1Co 9:25 (vedi approfondimento), dove Paolo a proposito degli atleti scrive: “Chiunque partecipa a una gara si padroneggia in ogni cosa”. Lo stesso verbo greco è usato nella Settanta in Gen 43:31 per dire che Giuseppe si padroneggiò. Nell’originale ebraico lì è presente un verbo che compare anche in Isa 42:14, dove il profeta riporta le parole di Geova: “Mi sono trattenuto”. Invece di agire immediatamente contro i malvagi, Geova ha lasciato passare del tempo affinché potessero avere l’opportunità di abbandonare il loro comportamento sbagliato e ottenere così il suo favore (Ger 18:7-10; 2Pt 3:9).

ma ospitale Utilizzando la congiunzione “ma”, Paolo crea una contrapposizione: passa dai tratti negativi della personalità che non renderebbero idoneo un fratello a servire come anziano alle qualità positive che un anziano deve avere. In questo modo fa capire che per diventare anziano un fratello non deve solo evitare caratteristiche negative; deve anche essere esemplare coltivando belle qualità come l’ospitalità. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:2.)

amante della bontà Chi ama la bontà ama tutto ciò che Geova considera buono. Vede il buono che c’è negli altri, li apprezza per questo e li loda. È anche felice di fare del bene, andando persino oltre ciò che ci si aspetta da lui (Mt 20:4, 13-15; At 9:36; 1Tm 6:18; vedi approfondimento a Gal 5:22).

assennato O “di mente sana”, “di buon senso”. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:2.)

leale Un sorvegliante leale è incrollabilmente devoto a Geova e si attiene fedelmente ai princìpi contenuti nella sua Parola. Rimane con tenacia al fianco dei suoi compagni di fede quando affrontano prove e persecuzione. Anche se il termine greco qui usato può trasmettere l’idea di “santo” o “devoto” (come viene tradotto in alcune Bibbie), la resa “leale” è ben attestata. Per esempio questo termine compare spesso nella Settanta come traducente di una parola ebraica che significa “leale” (2Sa 22:26; Sl 18:25; 97:10). Non a caso un’opera di consultazione dice che questo termine descrive “l’uomo che è leale a Dio”. (Vedi approfondimento a 1Tm 2:8.)

capace di controllarsi O “padrone di sé”. (Vedi approfondimento a Gal 5:23.)

non andare oltre ciò che è scritto Il principio a cui Paolo fa riferimento non si trova nelle Scritture Ebraiche. Sembra piuttosto che fosse un noto detto o proverbio. Queste parole implicano che i servitori di Dio non devono insegnare niente che vada oltre le leggi e i princìpi espressi nell’ispirata Parola di Dio. Per esempio, i cristiani non dovrebbero avere di sé stessi e degli altri un’opinione che vada oltre i limiti stabiliti dalle Scritture. I corinti erano caduti nella trappola di vantarsi del legame che avevano con certi uomini, forse Apollo e addirittura Paolo. Preferivano una persona all’altra e creavano disunione. Per avvalorare i suoi ragionamenti e forse con l’intento di trasmettere degli insegnamenti ai corinti, fino a questo punto della lettera Paolo ha fatto riferimento varie volte alle Scritture Ebraiche introducendo le citazioni con l’espressione “è scritto” (1Co 1:19, 31; 2:9; 3:19; vedi anche 1Co 9:9; 10:7; 14:21; 15:45).

capace di insegnare Un sorvegliante dovrebbe essere un abile insegnante, che sappia trasmettere ai suoi compagni di fede le verità e i princìpi morali che si trovano nelle Scritture. Nella sua lettera a Tito, Paolo dice che il sorvegliante deve essere “uno che nella sua arte di insegnare si attenga fermamente alla fedele parola”; in questo modo riuscirà a incoraggiare, esortare e riprendere (Tit 1:5, 7, 9 e approfondimenti). Paolo usa l’espressione “capace di insegnare” anche nella sua seconda lettera a Timoteo, dove dice che “lo schiavo del Signore” deve essere “in grado di controllarsi [...], esortando con mitezza quelli che si oppongono” (2Tm 2:24, 25). Quindi un sorvegliante dovrebbe essere in grado di ragionare in modo convincente usando le Scritture, di dare validi consigli e di arrivare al cuore di chi lo ascolta. (Vedi approfondimento a Mt 28:20.) Deve studiare con attenzione la Parola di Dio così da poter insegnare ad altri che a loro volta studiano la Bibbia.

colonna e sostegno della verità Per descrivere la congregazione dei cristiani unti, e per estensione l’intera congregazione cristiana, Paolo usa in senso figurato due termini architettonici. Ai suoi giorni, le colonne erano elementi strutturali robusti presenti in tanti grandi edifici; spesso servivano a sorreggere pesanti tetti. Paolo poteva avere in mente il tempio di Gerusalemme oppure alcuni imponenti edifici di Efeso, dove Timoteo viveva a quel tempo. (Il termine “colonne” compare anche in Gal 2:9. Vedi approfondimento.) Qui in 1Tm 3:15 Paolo descrive l’intera congregazione cristiana come una simbolica colonna che sostiene la verità. Il termine greco per “sostegno” si riferisce a “ciò che provvede una solida base a qualcosa”. Potrebbe anche essere tradotto “fondamento”, “appoggio” o “terrapieno di supporto”. Paolo usa insieme sia il termine “colonna” che “sostegno” per mettere in evidenza che la congregazione doveva sostenere e difendere le sacre verità della Parola di Dio. Soprattutto a chi è stato affidato l’incarico di sorvegliante nella congregazione è richiesto che sia “capace di maneggiare correttamente la parola della verità” (2Tm 2:15). Per Paolo questa era una questione urgente; voleva che Timoteo facesse tutto quello che poteva per rafforzare la congregazione prima che prendesse piede la grande apostasia.

con ogni [...] arte di insegnare L’espressione qui resa “arte di insegnare” traduce un unico sostantivo greco che si può riferire sia al modo di insegnare sia a ciò che viene insegnato. (Vedi l’approfondimento a Mt 7:28, dove lo stesso termine greco è reso “modo d’insegnare”.) In questo contesto l’attenzione è posta sullo stile dell’insegnamento, ed è per questo che il termine è stato reso “arte di insegnare”. Dal momento che Paolo in questa frase usa la parola greca che significa “ogni” o “tutta”, in alcune traduzioni compaiono rese come “ogni tipo di insegnamento”, “tutta la capacità d’insegnare” oppure “istruzione scrupolosa”. Commentando questo versetto, uno studioso ha affermato che Timoteo “doveva dimostrare sempre di essere un insegnante della verità cristiana bravo e pieno di risorse” (1Tm 4:15, 16; vedi approfondimenti a Mt 28:20; 1Tm 3:2).

incoraggia O “esorta”. Il verbo usato qui (parakalèo) significa letteralmente “chiamare a sé”. Ha un significato ampio e viene usato nel senso di “incoraggiare” (At 11:23; 14:22; 15:32; 1Ts 5:11; Eb 10:25), “confortare” (2Co 1:4; 2:7; 7:6; 2Ts 2:17) e in alcuni contesti “esortare” (At 2:40; Ro 15:30; 1Co 1:10; Flp 4:2; 1Ts 5:14; 2Tm 4:2; Tit 1:9, nt.). Lo stretto rapporto che c’è tra esortazione, conforto e incoraggiamento indica che un cristiano non dovrebbe mai esortare o consigliare qualcuno in modo duro o aspro.

uno che [...] si attenga fermamente alla fedele parola Un anziano dimostra di attenersi alla parola di Dio con il suo modo di insegnare e di vivere. Quando insegna nella congregazione, si affida non alle sue idee, alla sua esperienza o alle sue capacità oratorie, ma “alla fedele parola”, o “al messaggio degno di fede”, che si trova nelle Scritture (1Co 4:6 e approfondimento). Così facendo arriva al cuore di chi lo ascolta e lo motiva ad amare e a servire Geova (Eb 4:12). Inoltre, vivendo in armonia con i princìpi biblici che insegna, evita qualsiasi traccia di ipocrisia. Attenendosi alla parola di Dio, aiuta la congregazione a rimanere unita così che sia “colonna e sostegno della verità”. (Vedi approfondimenti a 1Tm 3:2, 15.)

nella sua arte di insegnare Vedi approfondimento a 2Tm 4:2.

incoraggiare O “esortare”. (Vedi approfondimento a Ro 12:8.)

dei circoncisi Lett. “quelli della circoncisione”, cioè alcuni cristiani ebrei circoncisi che venivano dalla congregazione di Gerusalemme. In altre occorrenze la stessa espressione greca è stata tradotta, oltre che semplicemente “circoncisi”, con “sostenitori della circoncisione” e “quelli che si attengono alla circoncisione” (Col 4:11; At 11:2; Tit 1:10).

uomini ribelli Qui Paolo si riferisce principalmente ad alcuni ebrei di Creta che si erano convertiti al cristianesimo. Questi “uomini ribelli” si attenevano con testardaggine a tradizioni e leggi giudaiche relative alla circoncisione che non erano obbligatorie per i discepoli di Cristo. Si rifiutavano di rispettare l’autorità e di accettare la guida degli apostoli e degli anziani di Gerusalemme.

inutili chiacchieroni Stando a un’opera di consultazione, questa espressione lascia intendere che gli uomini a cui si riferisce Paolo “parlavano con una certa eloquenza ma basandosi sulla verità solo in parte o per niente”. Paolo li definisce anche ingannatori perché riuscivano ad abbindolare i deboli e gli ingenui nelle congregazioni.

quelli che si attengono alla circoncisione Con questa espressione ci si riferisce ad alcuni cristiani ebrei di Creta. Sull’isola esisteva una comunità ebraica almeno a partire dal I secolo a.E.V. Alla Pentecoste del 33 E.V. anche ebrei cretesi avevano sentito parlare delle “magnifiche cose di Dio” (At 2:11). Quando Paolo scrive la lettera a Tito, a Creta alcuni ebrei che erano diventati cristiani promuovevano ancora con insistenza la circoncisione, anche se erano passati tra i 12 e i 15 anni da che, intorno al 49 E.V., lo spirito santo aveva guidato il corpo direttivo, che era a Gerusalemme, a risolvere la questione. (Vedi approfondimento a Gal 2:12.) Tito aveva accompagnato Paolo a Gerusalemme per quello storico incontro (At 10:45; 15:1, 2, 7, 22-29; Gal 2:1, 3).

chiudere la bocca Qui Paolo usa un verbo greco che, stando a un lessico, significa “‘mettere qualcosa sulla bocca’ e quindi controllarla come quando si usano le briglie, la museruola o il freno”. Alcuni nella congregazione facevano circolare false dottrine, riuscendo addirittura a “sovvertire intere famiglie”. Gli anziani nominati dovevano proteggere il gregge di Geova da questo tipo di persone e, figurativamente parlando, “chiudere [loro] la bocca” per evitare che i loro discorsi ribelli si diffondessero nella congregazione e la contaminassero. Potevano metterli a tacere riprendendoli con severità e, se necessario, espellendo chiunque avesse ignorato i consigli ricevuti più volte e avesse continuato a promuovere falsi insegnamenti (Tit 1:9, 10, 13; 3:10, 11).

uomini ribelli Qui Paolo si riferisce principalmente ad alcuni ebrei di Creta che si erano convertiti al cristianesimo. Questi “uomini ribelli” si attenevano con testardaggine a tradizioni e leggi giudaiche relative alla circoncisione che non erano obbligatorie per i discepoli di Cristo. Si rifiutavano di rispettare l’autorità e di accettare la guida degli apostoli e degli anziani di Gerusalemme.

inutili chiacchieroni Stando a un’opera di consultazione, questa espressione lascia intendere che gli uomini a cui si riferisce Paolo “parlavano con una certa eloquenza ma basandosi sulla verità solo in parte o per niente”. Paolo li definisce anche ingannatori perché riuscivano ad abbindolare i deboli e gli ingenui nelle congregazioni.

appetiti O “ventre”. Il termine greco koilìa si riferisce in senso proprio all’addome, ai visceri. Qui e in Flp 3:19 è usato in senso figurato per indicare gli appetiti, o desideri, carnali. In questo versetto Paolo spiega che le persone che sono schiave “dei loro appetiti” non possono essere schiave “del nostro Signore Cristo”. E in Flp 3:19 parla di persone che hanno come dio “il loro ventre”, cioè i loro desideri carnali.

il loro dio è il loro ventre La parola greca koilìa, qui resa “ventre”, si riferisce propriamente all’intestino, le viscere. Qui però è usata in senso metaforico per indicare gli appetiti o i desideri carnali di una persona. (Vedi approfondimento a Ro 16:18.) All’epoca di Paolo alcune commedie greche facevano riferimento al “dio ventre” e alcuni personaggi dicevano che il loro stomaco era “la più grande delle divinità”. Il filosofo latino Seneca, contemporaneo dell’apostolo Paolo, rimprovera a un individuo di essere “schiavo del ventre” (Sui benefici, VII, 26, 4, a cura di M. Menghi, Laterza, Roma-Bari, 2008). Sembra che per le persone menzionate nel v. 18 assecondare i propri desideri carnali fosse più importante che servire Geova. Alcuni forse esageravano nel mangiare o nel bere, arrivando a essere ghiottoni o ubriaconi (Pr 23:20, 21; confronta De 21:18-21). Oppure altri avevano forse preferito sfruttare le opportunità che offriva il mondo dell’epoca piuttosto che servire Geova. Secondo alcuni studiosi, Paolo poteva riferirsi a coloro che seguivano scrupolosamente i precetti alimentari giudaici. Erano così concentrati sull’osservanza di quelle leggi che il cibo era diventato la cosa più importante, era diventato il loro dio.

un loro profeta Paolo probabilmente cita Epimenide, poeta cretese del VI secolo a.E.V. Il termine greco qui reso “profeta” aveva un’ampia gamma di significati; a volte era usato per indicare genericamente un portavoce, un interprete o un araldo. In effetti alcuni antichi autori greci definirono Epimenide un profeta, e altri usarono lo stesso termine per riferirsi ad esempio al poeta Omero e al filosofo Diogene. Ovviamente Paolo non indica che Epimenide fosse un profeta ispirato da Dio (2Pt 1:21). Si limita piuttosto a citare un uomo che i cretesi rispettavano e che verosimilmente avrebbero accettato come portavoce della loro comunità.

“I cretesi sono sempre bugiardi, belve pericolose, oziosi ghiottoni” Nell’antichità i cretesi avevano fama di essere disonesti. Esisteva addirittura un verbo greco che letteralmente significa “fare il cretese”, “parlare [o “agire”] da cretese”, e che a volte veniva usato con il senso di mentire o ingannare. Paolo, comunque, non usa questo stereotipo per riferirsi ai cristiani fedeli di Creta (At 2:5, 11, 33); si riferisce piuttosto a quei cretesi che costituivano una minaccia per le congregazioni dell’isola. In questo brano parla infatti di “uomini ribelli, inutili chiacchieroni e ingannatori”, che promuovevano la circoncisione e sovvertivano intere famiglie. (Vedi approfondimenti a Tit 1:10.) Quindi Paolo fa questa citazione per mettere in risalto un punto importante: alcuni falsi cristiani si stavano comportando proprio come diceva quel famoso detto.

oziosi ghiottoni Il termine greco per “ghiottone” alla lettera significa “ventre”; suggerisce quindi l’idea di una persona che si concentra unicamente sulla sua ingordigia. Ovviamente non era solo a Creta che viveva gente del genere. (Vedi approfondimenti a Ro 16:18; Flp 3:19.) Scegliendo di citare questa parte del detto, a quanto pare Paolo vuole riferirsi a persone pigre e indolenti che desiderano soddisfare la loro ingordigia senza fare alcun lavoro.

“I cretesi sono sempre bugiardi, belve pericolose, oziosi ghiottoni” Nell’antichità i cretesi avevano fama di essere disonesti. Esisteva addirittura un verbo greco che letteralmente significa “fare il cretese”, “parlare [o “agire”] da cretese”, e che a volte veniva usato con il senso di mentire o ingannare. Paolo, comunque, non usa questo stereotipo per riferirsi ai cristiani fedeli di Creta (At 2:5, 11, 33); si riferisce piuttosto a quei cretesi che costituivano una minaccia per le congregazioni dell’isola. In questo brano parla infatti di “uomini ribelli, inutili chiacchieroni e ingannatori”, che promuovevano la circoncisione e sovvertivano intere famiglie. (Vedi approfondimenti a Tit 1:10.) Quindi Paolo fa questa citazione per mettere in risalto un punto importante: alcuni falsi cristiani si stavano comportando proprio come diceva quel famoso detto.

Riprendi Nell’uso biblico il verbo greco qui reso “riprendi” trasmette spesso l’idea di convincere qualcuno che ha sbagliato. Una riprensione viene data con il buon intento di spingere la persona a riconoscere il proprio errore e a correggerlo. Un dizionario dice che questo verbo può significare anche “correggere” nel senso di “allontanare dal peccato e indurre al pentimento”. Si tratta di una disciplina che ha valore educativo. In Gv 16:8 lo stesso verbo greco è reso “dare prove convincenti”.

per riprendere I sorveglianti cristiani hanno la responsabilità di riprendere “quelli che praticano il peccato” (1Tm 5:20 e approfondimento; Tit 1:13). Usano con pazienza le Scritture per aiutarli a rendersi conto che si sono allontanati dai princìpi divini e per correggerli di conseguenza (Gal 6:1; 2Tm 4:2). I cristiani possono usare le Scritture anche “per riprendere” sé stessi.

Questa testimonianza è vera Al v. 12 Paolo ha evidentemente citato il profeta cretese Epimenide, che espresse un’opinione generalmente condivisa. Qui al v. 13 Paolo non intende dire che quell’affermazione valga per tutti i cretesi; vuole piuttosto mettere in guardia Tito dalla presenza nelle congregazioni di alcuni che causavano problemi comportandosi a quanto pare proprio come diceva Epimenide. (Vedi approfondimento a Tit 1:12.)

continua a riprenderli con severità Nelle congregazioni cretesi alcuni contraddicevano il “sano insegnamento” cristiano; insegnavano le loro idee, arrivando a “sovvertire intere famiglie” (Tit 1:9-11). Per questo Paolo esorta Tito a continuare a riprendere chiunque avesse fatto propri questi falsi insegnamenti e avesse adottato caratteristiche negative. Dicendo “con severità”, non lo incoraggia a essere eccessivamente duro oppure privo di tatto. (Confronta 2Tm 2:24.) Intende piuttosto dire che Tito deve essere chiaro, coraggioso e determinato nel gestire il problema (Tit 2:15); deve comunque tenere a mente che il suo obiettivo era aiutare quegli uomini a essere “sani nella fede”. Era quindi necessario che Tito proteggesse la congregazione e fermasse la diffusione dell’apostasia. (Vedi approfondimenti a 1Tm 5:20; 2Tm 3:16.)

false storie In 2Tm 4:4 “false storie” e “verità” sono messe in contrapposizione. Il termine greco qui reso “false storie” è mỳthos, che secondo un lessico può essere definito “leggenda”, “favola”, “mito”. Nelle Scritture Greche Cristiane è sempre usato con un’accezione negativa. Paolo forse aveva in mente leggende stravaganti che promuovevano insegnamenti religiosi falsi o dicerie di natura sensazionale (Tit 1:14; 2Pt 1:16; vedi approfondimento a 1Tm 4:7). In questo versetto esorta i cristiani a non prestare attenzione, o non dedicare tempo, a tali false storie, perché non sarebbero state di nessuna utilità e avrebbero potuto distogliere la loro mente dalla verità contenuta nella Parola di Dio (2Tm 1:13).

false storie Le “false storie” (espressione che qui traduce il termine greco mỳthos) che circolavano ai giorni di Paolo erano irriverenti, o profane. Violavano le sacre norme di Dio ed erano contrarie ai santi e sani insegnamenti della verità (1Tm 6:20; 2Tm 1:13). Queste false storie erano frutto dell’immaginazione e non si basavano sulla realtà dei fatti, quindi erano prive di valore. (Vedi approfondimento a 1Tm 1:4.)

la verità della buona notizia Questa espressione, che compare anche nel v. 14, si riferisce all’intero complesso degli insegnamenti cristiani contenuti nella Parola di Dio.

favole Il termine greco mỳthos, che può essere definito “leggenda”, “favola”, “mito”, è qui usato in riferimento a storie di matrice giudaica. Gli ebrei avevano un ricco patrimonio di storie realmente accadute che erano riportate nelle ispirate Scritture Ebraiche. Eppure, deviando “dalla verità”, avevano inventato e diffuso le loro false storie. (Vedi approfondimenti a 1Tm 1:4; 4:7.)

comandamenti di uomini O “comandi umani”. Questa espressione richiama le parole di Isa 29:13, che Gesù applicò ai capi religiosi ebrei del suo tempo quando disse: “Insegnano come dottrine comandi di uomini” (Mt 15:9; Mr 7:7). Forse Paolo aveva in mente alcune delle restrizioni di origine umana che erano comuni nel giudaismo. I falsi maestri promuovevano queste regole, sostenendo che aiutassero ad avere una vita devota. Tali regole però erano in contrasto con “il sano insegnamento”, l’unico che avrebbe permesso ai cristiani di continuare a essere “sani nella fede” (Tit 1:9, 13; confronta Col 2:20-22; 1Tm 4:3-5).

verità Paolo qui si riferisce all’intero complesso degli insegnamenti cristiani che erano stati rivelati fino a quel momento. (Vedi approfondimento a Gal 2:5.)

Tutte le cose sono pure per i puri I cristiani che con il proprio modo di pensare e di agire si attengono alle norme di Dio sono “puri”. Sanno quali cose Dio considera moralmente o spiritualmente pure e quali invece condanna nella sua Parola ispirata (Mr 7:21-23; Gal 5:19-21). Riescono così a mantenere agli occhi di Dio “un cuore puro” e “una coscienza pura” (1Tm 1:5; 3:9; 2Tm 1:3; Mr 7:15). Con l’espressione “tutte le cose”, Paolo si riferisce alle cose che Dio non condanna. Mette in contrasto “i puri” con “quelli che sono [...] senza fede”, i quali hanno una coscienza contaminata. Per questi ultimi, “nulla è puro”.

Dichiarano pubblicamente di conoscere Dio I falsi maestri nelle congregazioni di Creta sostenevano di conoscere e adorare Dio. Ma conoscere Dio comporta ubbidire ai suoi comandi e camminare nelle sue vie (Sl 25:4, 5; 1Gv 2:3, 4). Queste persone, però, con le loro azioni, ovvero sia con il loro modo di agire sia con il loro stile di vita, dimostravano chiaramente che in realtà erano disubbidienti a Dio e che non lo conoscevano davvero. Ai suoi occhi tale ipocrisia è detestabile. (Confronta Pr 17:15.)

indegni di qualsiasi opera buona Il termine greco reso “indegni” significa “non adeguato”, “riprovevole” (Ro 1:28; 2Tm 3:8). Alla lettera trasmette l’idea di qualcosa o qualcuno che “non ha superato la prova”. Proseguendo la sua lettera, Paolo spiega quali opere buone Dio richiede da coloro che sinceramente desiderano piacergli (Tit 2:1–3:8).

Galleria multimediale

Introduzione video al libro di Tito
Introduzione video al libro di Tito
Nomine di anziani di città in città
Nomine di anziani di città in città

Sull’isola di Creta, seguendo le istruzioni di Paolo, Tito viaggiò di città in città per ‘fare nomine di anziani’ (Tit 1:5). Paolo aveva lasciato Tito a Creta ‘perché correggesse ciò che ancora non andava’ nelle congregazioni. Qualche tempo dopo gli scrisse una lettera ispirata. In questo modo, a quanto pare, gli fornì la guida spirituale e il sostegno apostolico necessari a svolgere il suo incarico nelle congregazioni di Creta. La lettera conteneva anche un elenco di requisiti che Tito doveva notare negli uomini che venivano presi in considerazione per essere nominati anziani (Tit 1:6-9). Conteneva inoltre consigli sull’importanza di usare “parole sane”, sulla necessità di “dedicarsi alle opere eccellenti” e su come gestire gli “uomini ribelli” nella congregazione (Tit 1:10, 11, 13, 14; 2:8; 3:14).

Frammento papiraceo con porzioni della lettera di Paolo a Tito
Frammento papiraceo con porzioni della lettera di Paolo a Tito

Nell’immagine si vede un piccolo frammento papiraceo chiamato P32. Su un lato contiene Tit 1:11-15, sull’altro Tit 2:3-8. Si tratta di una parte del foglio di un codice comunemente datato intorno al 200. È conservato nella John Rylands Library dell’Università di Manchester, in Inghilterra. Il suo contenuto coincide quasi perfettamente con il testo presente nel codice Sinaitico, autorevole manoscritto greco redatto circa 150 anni dopo. (Vedi Glossario, “codice Sinaitico”.)